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«Il senso ultimo della mia musica»: Intervista ad Amerigo Verardi

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Redazione

Gli esordi con gli Allison Run, il nuovo disco e la libertà di concepire la musica come un’esperienza di bellezza e trasformazione che collega questo piano di realtà a qualcosa di superiore. Una conversazione con l’autore del meraviglioso Un Sogno di Maila.

di Nino G. D’Attis

Foto: Enrica Luceri

Vorrei partire da un ricordo personale: nel 1987 stavo facendo apprendistato nella redazione di una rivista di moda e spettacolo che usciva a Lecce. Una mattina mi mettono in mano il vinile di All those cats in the kitchen, l’esordio degli Allison Run per la Mantra Records. Mi chiedono di recensirlo e ho idea di non aver ascoltato altro per una settimana di fila, chiuso nella mia cameretta con le cuffie in testa. Sono trascorsi 34 anni da allora; poco prima del tuo nuovo album è uscito Walking on the bridge, il cofanetto che raccoglie l’opera omnia della tua prima band. Cosa ricordi di quei giorni, di quel debutto?

   Ricordo la profonda amicizia con Alessandro Saviozzi e Mimo Rash, il grande e appassionato divertimento. La nostra intesa è stata la base per tutto ciò che di buono siamo riusciti a produrre. Avevo vent’anni e non sapevo nemmeno suonare adeguatamente il mio strumento, la chitarra, e forse è per questo che ebbi l’incoscienza di suonare sul nostro primo disco anche il basso fretless e il piano. Quando sei intimamente e follemente felice puoi fare tutto ciò che vuoi. Ma se desideri eccellere, devi passare attraverso il duro lavoro. E noi passavamo dalle quattro alle dieci ore al giorno nella nostra sala prove a Bologna. E io vivevo in casa mia con una chitarra sempre a portata di mano, buttando continuamente giù accordi, melodie, parole. Ricordo quando trasmisero per la prima volta Yellowish su Radio Rai, annunciando il brano come qualcosa di sorprendente, e non capacitandosi del fatto che una produzione così raffinata e “internazionale” potesse essere opera di tre giovanissimi italiani. Abbiamo avuto la fortuna di ottenere una gratificazione immediata, e questo ha fatto crescere molto la nostra autostima e ha determinato un miglioramento del gruppo in un breve arco di tempo. E pur senza riscontri economici, non sono mai diminuiti i nostri tempi di cottura in sala prove né la nostra genuina e totale dedizione a ciò che facevamo.

 

Uno degli aspetti più interessanti dei tuoi ultimi due lavori da solista è l’invito più o meno esplicito a trovare del tempo per poterli apprezzare appieno, come per un libro o un film. Se spezzi il continuum, restano ovviamente le singole canzoni ma evapora qualcosa dell’atmosfera che tiene insieme quei brani.

    Sono d’accordo. L’umore generale e l’atmosfera che riescono ad esprimere un disco, un libro o un film, sono gli elementi per me da sempre più essenziali e coinvolgenti. La magia di un’opera, nel caso di un album, non potrebbe mai essere rappresentata dai quattro minuti di un singolo pezzo, se non in maniera del tutto parziale e approssimata. Molti non sono d’accordo nel considerare Sgt Pepper il miglior album dei Beatles, perché in effetti Revolver potrebbe forse contare su un maggior numero di brani-capolavoro. Beh, quello che penso io è che l’atmosfera di Sgt Pepper è totalmente coinvolgente, anche grazie all’idea di fondo che lega tutti i brani e che li fa interagire fra loro, accrescendo esponenzialmente il valore assoluto sia dei singoli pezzi che dell’intero album e dando l’impressione di una perfezione che non appartiene necessariamente ad ogni canzone, ma alla bellezza di un tempo e uno spazio ideali che sono stati evocati dai Beatles stessi con uno slancio intellettuale ed emotivo ineguagliabile. Tu ora pensa come sono stato felice quando Un sogno di Maila è stato descritto da uno speaker italiano di una radio inglese come “il Sgt Pepper del 2021”…! Ho sempre lavorato molto sull’ “odore” che deve sprigionare un album. Nessuno dei dischi che ho pubblicato nella mia vita, a parte forse il secondo album dei Lula del 1999, ha mai voluto rappresentare solo ed esclusivamente una parata di bei pezzi. In Hippie dixit e Maila, in particolare, tutto questo lavoro sull’identità umorale di un’opera ha assunto una forma che considero quasi definitiva. Ed è una cosa che ovviamente mi rende particolarmente felice.

 

La prima volta che ho ascoltato Un Sogno di Maila mi è venuta in mente una riflessione di Elémire Zolla a proposito della “intollerabile, estatica fusione dell’ascoltatore con la musica”. Zolla usa questi termini per spiegare la condizione di samādhi e, poco prima, dice che quando si è in samādhi “si è ritirati nella propria interiorità e al tempo stesso espansi nella natura.” È una dimensione che ho trovato nella musica di John Coltrane, La Monte Young, Terry Riley e anche nei tuoi ultimi album.

    Penso di aver conquistato una condizione di relativa serenità che ho imparato a gestire anche grazie alla musica, e che in un certo qual modo sto restituendo alla musica stessa. Ma è un processo continuo, in divenire, un esercizio di “presenza” in quello che si fa, che poi con il tempo può diventare un dolcissimo automatismo. Da qualche anno mi sento, più che un deus ex machina, una specie di tramite, un canale di passaggio attraverso il quale filtrano messaggi da diversi piani di coscienza, non solo i miei. Piani verso cui tendo e che tento di esprimere all’esterno con forme concrete di bellezza da condividere, interferendo il meno possibile e cercando quindi di non inquinarle con le tipiche smanie dell’ego. Senza nulla togliere ai grandissimi Terry Riley e La Monte Young, devo ammettere che accostare il mio lavoro alle dimensioni sfiorate da un vero e proprio genio, un messaggero di Dio e di amore come John Coltrane, mi scuote un po’. E mi fa sentire, oltre che profondamente lusingato ed onorato, anche sinceramente inadeguato. Ma ti ringrazio con tutto il cuore anche solo per aver pensato una cosa simile. 

Sto pensando a un tuo vecchio pezzo, Blues for Ylenia, in cui secondo me c’erano già i semi di un modo di sviluppare un tessuto musicale differente, più free e dilatato sul quale posare un flusso di parole. È la forma che prevale in gran parte di Hippie Dixit e Un Sogno di Maila, sei d’accordo?

   Credo sia corretto. La mia voglia di sperimentare e di liberare la musica e le parole da qualunque vincolo, fino a una decina di anni fa era emersa concretamente solo a tratti. La sperimentazione era tutta racchiusa in esperimenti e ricerche innestati sulla forma canzone. C’è stata qualche rara eccezione, e certamente la più evidente è quella che hai citato, e forse farei una piccola citazione anche per Sado, Goodman & Faith. I desideri e i gusti di ogni singolo componente di una band, come anche le opinioni dei tuoi discografici, a volte creano invisibili pressioni che possono anche diventare barriere e che ovviamente possono influenzare la natura delle composizioni. Non ricordo di aver mai realmente sofferto per questo, ma sono consapevole di aver rinunciato talvolta a calcare la mano su possibili derive e deragliamenti creativi. Ma, sai, c’è sempre un momento giusto per svoltare il corso delle cose. E mi rendo conto che da una parte dovevo maturare, e dall’altra dovevo anche essere da solo per compiere quel salto. E provare a farlo è stato per me molto emozionante, oltre che di fondamentale importanza per la mia musica ma anche per la mia stessa vita.

 

Le parole finali della canzone Amor vincit omnia sono per Claudio Rocchi e Franco Battiato. Si parla di un volo “verso l’Uno, verso Dio, attraverso il bardo”. È un passaggio particolare, intenso e radioso, perché mette insieme bardo del sogno e bardo della morte.

   Si, hai ragione, è un po’ l’essenza stilistica di tutto quello che faccio: mettere insieme elementi contrastanti, a volte quasi stridenti o che più semplicemente sono l’uno l’opposto dell’altro, e stare poi a vedere quanto si stringono forte in un abbraccio indissolubile, a formare il tutto, l’Uno. Gli opposti sono l’essenza del principio stesso di esistenza. La conoscenza diretta di Claudio Rocchi ha deviato la mia ricerca personale quel tanto che bastava per farle prendere una strada che ora riconosco come familiare. 

Hai suonato e registrato quasi per intero il disco in solitaria. In qualche traccia hai accolto degli ospiti in studio e, a questo proposito, volevo domandarti quale è il tuo approccio verso i musicisti che chiami a dare un contributo alle tue composizioni.

   Sono collaborazioni estemporanee, tutti casi a sé stanti. Ogni presenza nell’album, e sono davvero esigue, ha per me un significato tanto a livello musicale che umano. In generale, comunque, negli ultimi anni cerco di non sentire troppo il bisogno di interventi esterni, di non farmi prendere da questa tentazione. Ho così tanti amici musicisti, alcuni davvero straordinari, che basterebbero pochi minuti di telefonate per dare colori diversi alla mia musica attraverso un loro contributo artistico. L’ho fatto in passato in modo totale e anarchico nell’album Nessuno è innocente, a nome Lotus, ed è stato semplicemente fantastico, quasi miracoloso. Ma avevamo uno studio di registrazione VERO a nostra disposizione 24 ore su 24, che non è come registrare in una stanza di un appartamento in condominio con zero spazio e con ascolti terribili, come appunto il mio Alma Mater Studio. I progetti ambiziosi non nascono necessariamente da idee grandiose, ma anche dalla capacità che senti di poter sfruttare al massimo i pochi mezzi a tua disposizione, concentrandoti ancor di più sull’essenza delle cose, anche quelle più piccole, cercando di far brillare i tuoi limiti piuttosto che trincerarti dietro l’ingannevole sicurezza che ti dà un potente dispiegamento di hardware e software unitamente a una capacità prettamente tecnica. Il musicista più importante con cui ho collaborato negli ultimi due album è certamente Valerio Daniele, un mio fraterno e prezioso amico che ha mixato Hippie dixit e Maila con me, un vero polo di confronto che con il suo orecchio raffinato e con il suo gusto mi ha aiutato a ripulire i miei lavori da tanta “sporcizia” accumulata da me in modo seriale nelle registrazioni.

 

Qualche anno fa ho letto un’intervista a Jason Pierce dove, parlando delle condizioni in cui – per diverse ragioni, non ultime quelle di budget –raccontava come si era ritrovato a registrare nel suo appartamento e praticamente da solo l’ultimo disco degli Spiritualized. Un musicista di casa ad Abbey Road, abituato a lavorare con l’orchestra e con una schiera di collaboratori lunga quanto i titoli di coda di un kolossal di Hollywood, di colpo deve ripartire da zero, adottare nuovi standard.

   È un uomo molto fortunato, fortunato due volte. La prima, perché sognando ha avuto l’opportunità di cenare fra le stelle; la seconda, perché risvegliandosi ha avuto il privilegio di fare colazione alla mensa dei poveri. 

C’è qualcosa che hai lasciato fuori dal disco e che magari potrebbe trovare spazio in un prossimo progetto?

   Ho lasciato fuori il cattivo gusto – ma questo è opinabile -, le mode del momento, la ricerca del consenso a tutti i costi e la tentazione di apparire per quello che non sono. E ho idea che non troveranno spazio nemmeno in un prossimo eventuale progetto.

 

Come è nata la collaborazione con gli artisti che si sono occupati di realizzare copertina e packaging del nuovo album?

   Con Rocco Caloro, che ha creato tutti i disegni compreso quello di copertina, siamo fratelli dai tempi del liceo. Con Giuseppe Schirone, un grande e prezioso amico “ritrovato” che ha curato tutto il packaging e la grafica, ci ho suonato quando avevo 14 anni formando la mia prima rock band. Con Anastasia Luceri, che ha creato tutti i collage del libro, collaboro appassionatamente da circa un anno e mezzo, a partire da imprescindibili ragioni sentimentali 🙂

 

La versione in vinile a tiratura limitata è stata curata da Antonio Marra per MarraCult e dalla Psychout Records, che ha in catalogo superbe edizioni di lavori di Rocchi, No Strange, Aktuala ed altri artisti. Roba per appassionati stampata da appassionati e messa in vendita a prezzi non esorbitanti. Ho un tuo messaggio vocale su WhatsApp in cui definisci quelli della Psychout/MarraCult dei “pazzi”, e in effetti sembra una cosa folle fare cose del genere nel 2021.

   Si, Cosimino Pecere e Antonio Marra sono quelli che comunemente nella discografia verrebbero definiti dei “pazzi”, come tante altre persone che compiono grandi atti d’amore spontaneo verso ciò che amano, a prescindere da tutto. In un mondo ideale, nell’Età dell’Oro, sarebbero persone normalissime, ma qui, oggi, nel Khali Yuga, sono degli alieni. Compiere grandi sforzi personali sapendo che, nel migliore dei casi, non si riceverà altro che complimenti e intime gratificazioni, al giorno d’oggi è un atto che può creare quasi un sospetto. Le persone rigorosamente chiare ed oneste, disinteressate agli aspetti puramente materiali, peggio se anche altruiste, oggi generano spesso sospetti. “Cosa nasconde? Mi vuol fregare. È un buonista. Ma chi si crede di essere?”. Mi hai anche fatto venire in mente quel brano di Edoardo Bennato, Mangiafuoco. C’è sempre qualcuno che ti vorrebbe punito o sconfitto, che scontassi la grave colpa di andare controcorrente, di essere troppo deviante dal gregge. E su questo vigila il re dei burattini, che “chiama i suoi gendarmi e ti dichiara pazzo”… Edoardo, che genio! Ok, sono uscito un po’ fuori tema?

Per niente.

   Psychout e MarraCult hanno pubblicato due edizioni capolavoro dei miei ultimi album, tra le edizioni grafiche più belle mai pubblicate nella storia della discografia italiana, e non sono io a dirlo ma alcuni dei più grandi collezionisti di vinile. E Cosimino e Antonio vendono queste opere a prezzo di costo. “Attento a quel che fai, attento ragazzo!”.

L’ultima volta che ti ho visto suonare dal vivo eri in tour per promuovere Hippie Dixit. A Roma diluviava, avevo scarpinato per chilometri ma il concerto fu un’esperienza unica, merito anche degli ottimi musicisti che ti accompagnavano in quell’occasione. Ho letto da qualche parte che, anche se non ci fosse stata la pandemia a bloccare tutto, avresti comunque annunciato il tuo ritiro dall’attività live.

   In effetti ho deciso che non andrò mai più in tour per poi ritrovarmi a recuperare a malapena le spese. Ho già dato. Discorso chiuso. Mio malgrado, rinuncio a qualcosa che amo fare. Non ho il potere di spostare i vettori che direzionano il mercato discografico, però posso scegliere di non subirli. Suonerò dal vivo solo in presenza di minime condizioni economiche ed organizzative che siano dignitose e adeguate a ciò che io e i miei musicisti siamo in grado di offrire. La musica non è più da tempo il mio lavoro, ho fatto una scelta precisa in questo senso, quindi non c’è più nessuno che abbia la facoltà di consigliarmi o addirittura costringermi a fare qualcosa in questa o in altre direzioni. Sono un artista libero, finalmente. Sono un musicista indipendente, da tutto e da tutti.

 

Per finire, faccio tre nomi: Teho Teardo, Gianni Maroccolo e Amerigo Verardi. State pubblicando dischi liberi da schemi precostituiti, dagli standard imposti dal mercato. Sembra quasi un ritorno al decennio ‘70, quando uscivano album in cui potevano convivere pop e sperimentazione. Insomma, saranno anche cambiati tempi e regole ma esiste ancora una difesa, un’alternativa alla medietà musicale che gira intorno.

   Per me è stato un passaggio naturale, come ti dicevo. Pur non avendo un vero e proprio mercato, trovo fantastico sapere di poter essere da stimolo per altre persone. Il senso ultimo della mia musica è questo e non lo cambierei con niente. Sai, con i grandi limiti che, come tutti, mi porto appresso, i miei limiti umani, io posso comunque riuscire a passare informazioni importanti e pulite sull’amore e sulla bellezza. Soprattutto attraverso la mia musica. Sono qui per questo, e non ho paura di rendermi ridicolo agli occhi e alle orecchie di chi non ha ancora i mezzi per riconoscere la semplicità e allo stesso tempo la potenza di quello che dico e di quello che suono. Non faccio certo “il difficile” di proposito, tutt’altro! Ma evidentemente, è un dato di fatto, la mia musica rimane un piacere per pochi, e per me è comunque un enorme privilegio riuscire ad offrire stimoli, vie di fuga e gratificazione alla sensibilità e all’intelligenza di chi magari si sente un po’ mortificato e schiacciato dalla banalità, dalla superficialità e dalla rozzezza del dire, del fare e del suonare comune.

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