Il 21 gennaio 1973 accade un fatto incredibile: i Pink Floyd hanno praticamente terminato il loro epocale, si dirà poi all’unanimità, The Dark Side of the Moon.
È tutto pronto, compreso l’artwork firmato da Storm Thorgerson per lo studio Hipgnosis, ma ad Alan Parson, il capo tecnico audio, c’è una cosa, una cosa sola, che proprio non va giù: trova incompleta e banale una traccia strumentale posta a cavallo tra il lato A e il lato B, tra Time e Money. “Che dite se proviamo a chiamare una cantante?“. I quattro musicisti, dopo l’iniziale resistenza dell’autore del brano strumentale, Richard Wright, che l’avrebbe voluta lasciare così, accettano di provare la soluzione proposta da Alan Parson. Questi pensa a Madeleine Bell o Doris Troy, ma scopre che loro non sono disponibili
La scelta allora ricade su una ragazza di 25 anni che lavora come corista/turnista per la EMI, tale Clare Torry, una perfetta sconosciuta. Clare arriva puntuale agli Abbey Road Studios la domenica successiva. Stupita si trova davanti i Pink Floyd. “Mi aspettavo di dover registrare qualcosa in un coro” dirà più tardi. Richard lancia un’occhiataccia ad Alan ed esclama: “Sarebbe questa la cantante? Sembra un’onesta casalinga inglese!” Alla ragazza, che finge di non aver sentito le frecciatine di Wright, viene fatta ascoltare la traccia fin lì registrata, una sequenza di accordi di pianoforte impreziositi dalla slide guitar di David Glimour. È proprio David, quel giorno responsabile della registrazione, a spiegare a Clare cosa i Floyd vogliono da lei: “Non devi cantare nulla di preparato. Improvvisa, la tua voce deve essere uno strumento musicale. Deve suonare come un assolo di chitarra”.
Clare mette le cuffie e comincia a cantare. La prima take viene rifiutata, “Troppi oh yeahh baby baby”. “No, non vogliamo che canti parole, qui le parole sono superflue”, le dicono. David le offre una birra e le spiega che la traccia parla del passaggio graduale dalla vita alla morte e che il pezzo si divide in due parti distinte: prima il rifiuto dell’avvicinarsi alla fine, poi la rassegnazione quasi serena di fronte all’inevitabile. Clare infila le cuffie e canta di nuovo, per la seconda e ultima volta. I Pink Floyd si dicono soddisfatti, ma lei non lo è affatto. Esce dallo studio di registrazione con il suo compenso, 30 misere sterline, e con la convinzione che il lavoro fatto quella domenica non vedrà mai la luce.
Invece il pezzo, che nelle intenzioni di Wright si sarebbe dovuto chiamare The Mortality Sequence o The Religious Section, venne inserito nell’album con il nome The Great Gig in the Sky.
La favola per l’onesta casalinga inglese non finì qui: Clare Torry nel 2004 citò in giudizio la EMI e Pink Floyd asserendo di aver contribuito anche artisticamente al brano The Great Gig in the Sky. L’anno dopo l’Alta Corte di Giustizia britannica dichiarò la cantante co-detentrice dei diritti d’autore sulla canzone e si raggiunse anche un accordo extragiudiziale, del quale non sono mai stati resi noti i termini, per la parte economica relativamente ai diritti dal 1973 al 2005. Da “onesta casalinga”, la Torry si ritrovò ricoperta d’oro; da sconosciuta turnista si ritrovò ad essere l’autrice di uno dei brani più importanti dell’intera discografia internazionale, punta di diamante di The Dark Side of The Moon, disco che ormai si ritiene abbiano comprato pure i sassi.
Questo sarebbe potuto essere il perfetto lieto fine della favola di Clare Torry, ma nelle favole, si sa, c’è sempre un mostro pericoloso che attende al varco l’eroina. Il mostro si palesò il 30 giugno 1990 in occasione del Live At Knebworth, concerto di beneficenza che si tenne a favore della Nordoff-Robbins Music Therapy Centre. In quell’occasione si esibirono, davanti a un pubblico di circa 120.000 persone, Paul McCartney, Dire Straits, Genesis, Phil Collins, Robert Plant con Jimmy Page, Cliff Richard, Eric Clapton, Tears For Fears e a chiudere la serata i Pink Floyd. A sorpresa, quando fu la volta dei Floyd, salì sul palco anche Clare Torry che eseguì la sua The Great Gig in the Sky. L’esecuzione fu un disastro, così terribile da attirarsi critiche unanimi e feroci. Qualcuno scrisse addirittura che la Torry non aveva cantato, ma ragliato.
Del Live At Knebworth si erano perse le tracce sino al 13 dicembre 2019, giorno in cui la band inserì l’intera performance all’interno del cofanetto “The Later Years 1987 – 2019”, prodotto destinato ai più integralisti tra i collezionisti floydiani, dato l’elevatissimo costo. È invece notizia fresca che il 30 aprile 2021 i Pink Floyd ripubblicheranno il concerto del 1990 su CD, vinile e piattaforme digitali in formato standalone, così sarà fruibile a tutti l’esecuzione che segna (eccezion fatta per il trascurabile e unico suo album in studio del 2006 “Heaven in the Sky”) l’ultimo acuto, neanche troppo intonato, della Torry. La sua caduta dal cielo.