Michel Petrucciani, la storia di un musicista che nonostante il corpo minuto e la malattia che non gli ha permesso di crescere, è stato un grande del jazz.
Era alto 97 centimetri e pesava appena 27 chilogrammi eppure nonostante la malattia che per tutta la vita l’ha fatto soffrire di continue rotture ossee, è diventato uno dei più grandi pianisti e compositori che il mondo del jazz abbia mai conosciuto. Michel Petrucciani (il cognome si legge alla francese Petruccianì, ndr) era affetto da osteogenesi imperfetta, una patologia genetica rara ancora oggi conosciuta come la malattia delle ossa fragili che prima l’apparato scheletrico del calcio necessario per la normale crescita.
Questo non gli ha impedito però di solcare i palchi di tutto il mondo, un vero e proprio genio della musica che dalla piccola Orange, comune di circa 30 mila abitanti in Costa Azzurra in cui è nato nel 1962 da famiglia di origini italiane (il nonno era napoletano), si è fatto apprezzare in tutti i continenti. Proprio a causa della malattia è morto giovanissimo ad appena 37 anni, nel 1999; nonostante la breve vita è però riuscito a lasciare il segno ed un’eredità portata avanti dai figli.
Petrucciani la musica, anzi il jazz ce l’aveva nelle vene. Del resto erra figlio d’arte, il padre Tony era un rinomato chitarrista jazz ed è proprio grazie a lui che avviene il primo approccio con la musica quando già a quattro anni mette le mani sulla prima tastiera.
Da quel momento allarga la sua conoscenza anche ad altri strumenti musicali, ma è con il piano che avrà il connubio perfetto. A 13 anni incontra Clark Terry, trombettista americano, con il quale riesce a suonare e che lancia la sua definitiva carriera. Una serie di esibizioni live e solo due anni più tardi, ad appena 15 anni, arriva il primo album grazie anche all’incontro con Kenny Clarke, batterista statunitense e innovatore dello stile bebop.
I primi anni Ottanta sono segnati dal primo tour in giro per la Francia, dopo il quale si trasferisce in California. Qui avviene l’incontro con il sassofonista Charles Lloyd che lo inserisce nel suo quartetto e con il quale collaborerà per 3 anni.
La malattia non l’ha mai ostacolato, si è fatto costruire un pianoforte su misura in cui era presente un particolare attrezzo che gli permetteva di arrivare ai pedali. Il sassofonista Wayne Shorter ricorda come Petrucciani si immedesimasse completamente con lo strumento, di come si aggrappasse al pianoforte e di quanto lasciasse il pubblico in silenzio ed esterrefatto, pronto a vederlo crollare mentre lui inesorabile continuava a suonare.
La fama che si è costruito nella lunga carriera della sua breve vita, non l’ha solo portato a suonare con i miti del mondo del jazz, come Jim Hall e Dizzy Gillespie per fare due nomi, ma a fare anche incursioni in altri mondi musicali. Da piccolo aveva studiato anche musica classica e quindi ecco che Francesco Muti lo scelse nel 1998 per alcuni concerti con la Filarmonica del teatro alla Scala.
Tanti i riconoscimenti ottenuti in carriera, tra cui l’ambito Django Reinhardt Award e la nomica come miglior musicista jazz europeo da parte dello Stato italiano. Il suo ricordo è portato avanti anche da una serie di documentari; nel 2011 è uscito Michel Petrucciani- Body & Soul diretto da Michael Radford, mentre nel 2019 i figli Alexander e Richard avviano Hidden Joy: a fragile Journey documentario che si concentra sulla forza interiore del padre.
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