Cosa resta di un artista quando il suo corpo muore e le persone che sono state parte della sua vita si fanno carico di gestire le opere che ha prodotto? Il catalogo, ma anche eventuali provini, abbozzi di canzoni, idee catturate al volo su un registratore tascabile, materiale in divenire.
E poi: dove tracciare di preciso il confine che separa ciò che potrebbe far felice un fan dalla pura speculazione? Me lo sono chiesto più di una volta, alla fine sono giunto alla conclusione che alcuni dischi postumi abbiano senso (Closer dei Joy Division; MTV Unplugged dei Nirvana, i primi che mi vengono in mente), altri decisamente no (in questo caso la lista sarebbe interminabile, ma pensate a ciò che è stato fatto con Hendrix, Lennon, Amy Winehouse, Chris Cornell). L’industria discografica prospera anche sui morti, è assodato. Il business offre ampi margini di profitto, per giunta a rischi molto bassi (a spingere facilmente in classifica Elvis, De André o Freddie Mercury è sempre la risposta emotiva del pubblico a un’assenza).
Alan Bermowitz, in arte Alan Vega se ne è andato a 78 anni il 16 luglio del 2016. Elizabeth Lamere, la sua vedova, ha annunciato che dopo It, pubblicato nel 2017 e Mutator ascolteremo altro materiale tirato fuori dai cassetti. Ora, c’è da dire che – ragionando in termini meramente commerciali – qui si parla di un outsider, mica di Michael Jackson o di uno qualsiasi dei nomi che ho citato sopra. Di tutto rispetto, ci mancherebbe (se non conoscete i Suicide, la sua band, avete una grave lacuna che una manciata di dischi recentemente ristampati dall’etichetta Mute e l’ottimo volume di Kris Needs Suicide: Dream Baby Dream – La storia della band che sconvolse New York City, edito in Italia da Goodfellas, potrebbero colmare). L’estetica nichilista dei primi Nine Inch Nails discende dal punk fatto con i sintetizzatori creato da Martin Rev & Alan Vega nel 1977. Henry Rollins lo adorava. Bruce Springsteen, che incise nel 2008 una cover di Dream Baby Dream, ha rimarcato in diverse occasioni l’influenza del duo su uno dei suoi album più famosi, Nebraska. Alcuni anni fa, la rapper inglese M.I.A. utilizzò un sample di Ghost Rider per la base del suo pezzo Born Free.
Un’ombra distante dal mainstream e tuttavia abbastanza forte da esercitare un certo ascendente sul mainstream stesso, ecco chi era Mr. Vega. Il qui scrivente gli ha riservato fin dall’adolescenza un posto speciale nell’Olimpo delle personalità più autorevoli nella storia del rock. In bella compagnia, è il caso di sottolinearlo: in cima alla scalinata ci sono Lou Reed e David Bowie, se proprio vi preme saperlo.
Dunque, i casi sono due: 1) Liz Lamere ha fatto una cosa buona; 2) Liz Lamere ha fatto una cosa discutibile.
Mutator recupera registrazioni non finite né mixate che risalgono al 1995/1996 e acquista una veste definitiva grazie al tocco di Jared Artaud dei Vacant Lots, amico di Vega negli ultimi anni. La genesi, ricorda Lamere, non fu esattamente legata all’idea di realizzare un disco quanto al gioco, alla sperimentazione pura con i suoni delle apparecchiature che la coppia aveva a disposizione in studio: “Io suonavo i riff mentre Alan modificava i suoni che si generavano attraverso le macchine”. Artaud ha contribuito a dare una nuova veste a questi 8 vecchi/nuovi pezzi: dall’iniziale, brevissima Trinity alla conclusiva Breath, la voce di Alan Vega striscia in un sepolcrale labirinto sonoro techo-industrial in cui versi come “You destroy generations / You take the life from the young” (da Nike Soldier) inciampano nell’eruzione di scosse elettriche, nell’intermittenza di un loop granuloso, di una drum machine dall’incedere marziale. È il mondo di Alan Vega: ricreato, remixato, aggiornato a nevrosi e angosce del nostro quotidiano. Lui è ancora l’oracolo di un tempo buio, l’esploratore di ambienti mentali imparentati con l’Interzona di William Burroughs e certa narrativa cyberpunk come ai tempi di Power on to Zero Hour, album solista datato 1991 o della sua collaborazione con i finlandesi Mika Vainio e Ilpo Väisänen (Pan Sonic) per il colossale Endless (1998, Blast First).
Non ha vissuto la pandemia, non ha fatto in tempo a vedere i video inquietanti con cani robot e soldati che indossano esoscheletri; non era più tra noi quando i sostenitori di Trump marciarono sul Campidoglio. Eppure la sua musica, la sua poesia (ma anche le opere multimediali che ha lasciato) hanno raccontato con largo anticipo tutto questo: l’America dei bassifondi in cui era cresciuto, i ghetti di un pianeta costantemente esposto a catastrofi pubbliche e private, rotture traumatiche, e sempre più povero di valori, relazioni autentiche, prossimità spirituale.
Ha dunque senso di esistere un album come Mutator? La risposta è sì.