Primo lavoro di inediti in 16 anni, As Days Gets Dark rimette in gioco la sigla Arab Strap nata nel 1995 dall’incontro a Falkirk, Scozia, tra il cantante Aidan Moffat e il polistrumentista Malcolm Middleton.
Il nome lo presero da un sex toy, per la precisione un anello da pene per facilitare e mantenere stabile l’erezione. In un decennio diedero alle stampe sei album, seguiti da tre raccolte (Singles, uscito solo sul mercato giapponese nel 1999; Ten years of tears del 2006 e Arab Strap del 2016); poi lo scioglimento, i dischi solisti, il ritorno con un tour, ora 11 canzoni nuove prodotte da Paul Savage.
“I don’t give a fuck about the past / Our glory days gone by…” queste le parole che aprono The Turning of our bones, la prima traccia scelta come singolo e accompagnata da un videoclip realizzato da Ciaran Lyons con un montaggio di immagini pescate da vecchie pellicole horror. Non sono mai pulite, politicamente corrette, le liriche di Moffat. Perché dovrebbero esserlo? Negli anni, questo autore è stato accusato di misoginia, misantropia e parafilie assortite dopo aver raccontato con disarmante sincerità storie di relazioni al limite, attingendo in gran parte alla propria esperienza personale. Beh, la stessa cosa capitò a Hubert Selby jr e Norman Mailer (due giganti della letteratura, per chi non lo sapesse) all’indomani della pubblicazione dei loro romanzi Ultima uscita per Brooklyn per il primo e Un Sogno americano per il secondo; libri che oggi, con l’ondata di falso moralismo che ha investito come un tornado la società in cui viviamo, non avrebbero mezza possibilità di raggiungere gli scaffali delle librerie.
La lingua di Moffat è scabrosa e affilata, arriva dalle viscere e affiora cupa e ardente sulle trame sonore create dal suo socio Middleton. La croce, lo squallore del quotidiano, diventano racconto, cronaca di un presente squadernato. Sesso sporco, bassezze morali, demoni che attraversano la psiche: gli Arab Strap non fanno dischi da ascoltare in una serata romantica con chiaro di luna, candele profumate, bottiglia di Bollinger nel secchiello e lenzuola pulite in camera da letto. L’effetto che provocano le loro canzoni non è dissimile da quello che si potrebbe provare di fronte alle fotografie voyeuristiche di Merry Alpern scattate nella toilette di un sex club a Manhattan. Allora perché ascoltarli? Perché sono onesti, mi viene da dire. Brutalmente sinceri nel loro capolavoro Philophobia (1998) come in questo settimo album, schietto anche quando in Another clockwork day si focalizza sulla giornata tipo di un vecchio erotomane.
I temi sono quelli di sempre: tribolazioni della carne, sbornie notturne, paturnie tra uomo e donna. L’ironia è greve, crepuscolare ma, a differenza dei lavori precedenti, qui l’autobiografia cede qualcosa alla necessità di narrare storie altrui (in Fable of a urban fox il riferimento è al modo in cui viene visto l’estraneo, il diverso, il migrante, dalla parte più conservatrice della società). Il quadro è più ampio, figlio di una maturità anagrafica oltre che artistica: dal lercio del privato si passa a raccontare i dettagli di una discarica universale. Nulla è risparmiato: tradimenti, stanchezza fisica e mentale, morte (Tears on tour). Musicalmente c’è un uso maggiore di beats, di soluzioni dance sui generis offerte come un salvagente a qualcuno che ha appena avuto un crollo nervoso. Ci sono arpeggi di chitarra che – con un ritmo irrobustito – non sfigurerebbero su un disco dei Metallica e qui servono a far scorrere una tensione sottopelle più o meno costante per l’intera durata del lavoro. La voce di Moffat deve molto a Leonard Cohen, ma di suo ci aggiunge lo scazzo, l’afflato di un poeta che crea un muro di parole oltre il quale c’è l’annichilimento, l’autodistruzione.
Più tenebra che luce, as usual.