Età media vent’anni, provenienza UK. E potrei già chiudere qui, con questi dati minimi la recensione al sorprendente disco di debutto di un’altra band inglese di giovanissimi (solo pochi mesi fa, dallo Yorkshire, sono venuti fuori gli ottimi Working Men’s Club guidati dal diciottenne Syd Minsky-Sargeant).
Chiudere sentenziando che differenze culturali profonde quanto la fossa delle Marianne impediscono di mettere seriamente in parallelo il concetto di “musica indipendente” così come viene inteso in Italia e come invece è interpretato di là dal canale della Manica. Perché oltre la bravura tecnica, i Black Country, New Road hanno idee che potrebbero vendere un tanto al chilo a molti coetanei che vivono tra Instagram e le telecamere di un talent show o del salotto di Mara Venier.
I sei pezzi che compongono For the first time sono un eccellente biglietto da visita che assembla jazz-rock, free-funk ed elementi di musica klezmer. Sulla carta, qualcosa di bislacco: immaginate una jam da sogno tra Don Cherry, Ornette Coleman, gli Slint, Steve Albini e John Zorn (periodo Masada) durante la quale si innestano elementi umorali tipicamente british.
Nel gruppo, formato da sette elementi, suona il basso Tyler, figlia di Carl Hyde degli Underworld. Il cantante/chitarrista Isaac Wood ha dichiarato di avere un debole per i libri di Thomas Pynchon e l’influenza di letture di un certo peso si avverte nei suoi testi che tratteggiano storie da autofiction psicanalitica quasi del tutto prive di ritornelli. La padronanza dei vari linguaggi musicali è impressionante al punto da riportare alla mente esordi oggi più blasonati (God dei Rip Rig + Panic, nel 1981); merito anche del produttore Andy Savours, un uomo che si è fatto le ossa in cabina di regia con Alan Moulder e Flood e ha lavorato con My Bloody Valentine, April Towers, PJ Harvey.
Chiunque abbia avuto la fortuna di assistere a uno show dei BCNR sostiene che gran parte dell’energia sprigionata dalla band sul palco è stata trasferita senza grossi stravolgimenti nei 41’ dell’album. Un lavoro introdotto dalle percussioni e i fiati afrobeat di Instrumental (con echi dei Sons of Kemet) e che fa arrivare le prime parole in Athens, France, dove Wood si abbandona a un recitato drammatico perennemente sospeso su fraseggi/stacchi in cui pare di sentire i Sonic Youth in versione jazz. Dissonanze attraversano Science Fair, sviluppata intorno a derive free e innesti di elettronica (qualcuno ha appena tirato in ballo il sacro nome di Sun Ra?). Sunglasses, precedentemente pubblicata su singolo – sebbene in versione leggermente diversa – finge un cantabile che collassa immediatamente per poi riacquistare forza in forma di delirio febbrile sul filo di una tensione nevrotica tracimante: “I become her father/And complain of mediocre theater in the daytime/And ice in single malt whiskey at night.” Più morbida la successiva Track X, addolcita da coro femminile e fiati che evocano un paesaggio in bianco e nero con nuvole in sovraesposizione (“I left my drink on the 18th floor/I thought about you jumping and your face when you saw…”). Chiude il disco la maestosa Opus, a tratti ballabile (in piazza, dopo diverse birre e con un pensiero a Goran Bregović), stordente nel finale che lascia senza fiato e fa venire voglia di riascoltare per intero un album dalle mille corrispondenze e in equilibrio perfetto tra ricerca estetica e sperimentazione.
Da avere assolutamente.