La leggenda dell’hard rock inglese è andata in pensione il 4 febbraio 2017, con l’ultimo concerto del tour d’addio a Birmingham.
Birmingham, la città in cui tutto era cominciato nel lontano 1966 mutuando il nome della band dal titolo internazionale del film italiano I Tre Volti della Paura, diretto da Mario Bava nel 1963. L’ultimo album di inediti, 13, prodotto da Rick Rubin, ha chiuso in bellezza una lunga carriera fatta di alti e bassi, il cui periodo d’oro è riconosciuto all’unanimità negli anni che vanno dal 1970 al 1978. È tempo di mettere mano agli archivi: la campagna di ristampe in grande formato ha avuto inizio lo scorso anno con il boxset che celebrava il mezzo secolo di “Paranoid“; ora tocca a “Vol 4“, disponibile nelle versioni con cinque vinili o quattro cd.
Il disco originale uscì il 25 settembre 1972 e all’inizio – se l’etichetta Vertigo non avesse posto il suo veto – avrebbe dovuto intitolarsi Snowblind, come la traccia che apriva il secondo lato e con un esplicito riferimento alla cocaina. In quel periodo il gruppo c’era dentro fino al collo, come è stato più volte raccontato senza peli sulla lingua dai diretti interessati e dalla cerchia più stretta dei loro collaboratori. È noto che Geezer Butler ebbe a stimare il consumo della sostanza nel corso delle sessions di registrazione in circa 75.000 dollari. Fu anche il primo album in cui, dopo tre lavori supervisionati da Rodger Bain, il chitarrista Tony Iommi prese in mano le redini della produzione, coadiuvato per due lunghi mesi (con annesse leggende di sesso e fattanza) da Patrick Meehan ai Record Plant Studios di Los Angeles. L’idea era di realizzare qualcosa di diverso rispetto al trittico che aveva portato i Black Sabbath al grande successo di pubblico: il precedente Master Of Reality aveva fatto sfaceli nelle classifiche americane e UK ma Iommi desiderava dimostrare al mondo che quei quattro straccioni di periferia erano in grado di evolversi tanto sul piano compositivo quanto su quello dell’esecuzione. Era sicuramente disposto ad assumersi il rischio del fraintendimento, mai a sedersi comodamente sugli allori. Vincere o soccombere, insomma, nell’anno in cui – per restare nello stesso campo da gioco – il quarto disco dei Led Zeppelin, uscito nel novembre precedente, continuava a macinare senza pietà copie vendute.
Sono trascorsi 49 anni durante i quali il commercio di musica non sempre ha tenuto in considerazione le ambizioni artistiche. Sempre meno, verrebbe da dire. Ripulito con nuova rimasterizzazione dalla polvere del tempo (ad opera di Steven Wilson); arricchito da contenuti speciali che faranno la gioia dei completisti, “Vol 4” suona ancora oggi come un gran disco, figlio di una band in stato di grazia. È il lavoro in cui acquista uno spazio maggiore la melodia, e gli arrangiamenti si fanno più raffinati. È il disco di Changes, Supernaut e Cornucopia, dello strumentale Laguna Sunrise e della visionaria Under the Sun, tematicamente incentrata sul lato oscuro della cultura hippie (dove il “mago nero” citato nel testo potrebbe essere Charles Manson). Canzoni che rivelano un altro lato della band in termini di innovazione, intesa altresì come distanza dall’immagine posticcia di adoratori di Satana appiccicata loro dalla casa discografica.
L’edizione deluxe offre, accanto a un libro foto-storiografico e a un bel poster, sei outtakes finora inedite (che si aggiungono ad 11 alternate takes circolate su vari bootleg) più un documento dal vivo del tour tenuto dalla band nel 1973 remixato da Richard Digby Smith partendo dai nastri originali dell’epoca registrati su 16 tracce. Catalogare come: “Resistente alla prova del tempo”.
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