A quattordici anni facevo sega a scuola per andare a ispezionare le ultime novità nella vetrina di La Greca in via Trinchese. Quello era il miglior negozio di dischi di Lecce, chiedete lumi ai vostri zii, ai vostri nonni tossici di musica, se pensate che stia esagerando.
Un edificio sacro; un santuario dove si celebravano funzioni in onore di divinità kraut, punk, post-punk, new wave e no-wave. Ci trovavi le sciarpe dei Sex Pistols, i poster e le cartoline pubblicitarie degli Who, Debbie Harry ritratta da Warhol, la prima edizione di Metal Box dei P.I.L. con due 12” chiusi in una scatola in metallo circolare, The Raven degli Stranglers con la copertina tridimensionale. Altri tempi, come diciamo noi vecchie ciabatte mentre ingoiamo una pasticca di Multicentrum 50 Uomo e tuffiamo il naso estasiati tra i solchi di un vinile stagionato.
Una luminosa mattina di primavera inoltrata, attraverso quella magica teca (vera e propria porta alchemica su altri mondi), i miei occhi si incollarono su un paio di fighe spaziali armate di giavellotto. Amazzoni in tunichetta virginale catturate – ma questo l’avrei scoperto solo molti anni più tardi – dall’obiettivo della macchina fotografica di Neil Kirk per un artwork curato da Peter Saville (se avete in casa un disco qualsiasi dei Joy Division o dei New Order, trovo pleonastico snocciolarvi la sua considerevole biografia). Ero al cospetto di Flesh + Blood, settimo album dei Roxy Music, come ebbe a confermarmi un amico (non dirò il nome: oggi costui ha una famiglia e pure dei nipoti, l’anonimato è d’obbligo) notoriamente avvezzo a pugnalarsi in bagno fantasticando sulle ragazze che illustravano le raccolte di Fausto Papetti. Pure questo gruppo inglese aveva un sassofonista e metteva modelle da svenimento sulle copertine, però il sound era sostanzialmente diverso da quello del maestro di Viggiù. Pochi giorni più tardi, mio padre mi sorprese a fare air guitaring mentre alla tele passava un filmato promozionale del singolo Over you: «Questo qui è proprio scemo, mo’ l’ho capito», disse in preda a manifesto sconforto rivolgendosi a mia madre.
Tutto vero.
Oggi Bryan Ferry, ex cantante di quella band che agli esordi includeva un truccatissimo Brian Eno (Achille Lauro, levati di torno) ha 76 anni ed ha appena pubblicato per la sua etichetta privata un album dal vivo registrato nel marzo dello scorso anno presso la Royal Albert Hall di Londra. Il grande crooner del glam rock, incallito dongiovanni, un po’ pirata e molto signore, mette così in fila 18 perle attingendo al repertorio dei Roxy e a quello della sua carriera solista (iniziata nel 1973 con l’album di cover These Foolish Things). In un momento in cui il circuito della musica dal vivo è alla canna del gas, il disco in questione ha una nobile peculiarità: tutti i proventi derivanti dalle vendite saranno divisi tra il cantante, la sua band (undici elementi, incluse tre coriste e una violoncellista) e i membri della crew che abitualmente si occupa di gestire ogni aspetto logistico e promozionale di un’esibizione.
La musica? Qui siamo in zona classici, con tanto di certificato di eccellenza: si comincia con The Thrill of it All, brano che nel 1974 apriva col botto Country Life (“Every time I hear the latest sound / It’s pure whiskey reeling round and around / My brain oh and all of that jive / It’s driving me wild the dizzy spin I’m in”); si prosegue con You can Dance (da Olympya, anno 2010) e fino alla fine non ci sono sbavature, lasciano a bocca aperta le versioni di Same Old Scene e Dance Away. Nessuna pecca, dicevo. A casa tutti bene, grazie. Prima di metterci a tavola per consumare una cena a lume di candela a base di scampi al caviale, cornetti di salmone, anguilla ricoperta di zucchero filato al pepe, laviamo accuratamente le mani, verso una coppa di Dom Pérignon alla signora e lei mi lascia sbirciare nella generosa scollatura del suo kimono di seta a fantasia paisley su base nera. Poi arriva Pyjamarama e lei è già cotta, io sono cotto e già mezzo brillo le sussurro all’orecchio: “The world may keeps us far apart but up in heaven, angel”. So che è pazza di me e che quando andrà via si prenderà le chiavi della Rolls, la pantera che si aggira inquieta tra le orchidee del nostro giardino, l’ultima Guinness rimasta in frigo e mi lascerà pazzo e solo. Allora chiamerò Bryan Ferry. Senza farmi troppi scrupoli, lo sveglierò nel cuore della notte e lui mi canterà: “Here is a taste of here and now / Red is the bloody sign of the times / The bride stripped bare / Of all despair /We’re cut but we don’t care.”