In principio Brian Dougans e Garry Cobain crearono The Future Sound of London (o FSOL), e fu il dub amalgamato all’ambient-elettronica di Papua New Guinea (con un sample di basso dei Meat Beat Manifesto e la voce di Lisa Gerrard dei Dead Can Dance in prestito).
Poi vennero Lifeforms (1994) e Dead Cities (1996): distopie, stati modificati di coscienza, campionamenti à gogo, esperienze per giovani psiconauti con gli scritti di Castaneda, Huxley e Leary sul comodino e il timbro di un rave in un magazzino in disuso sul polso. Furono i viaggi fuori dal corpo e la trance naturale o indotta; i fondamenti dell’onironautica applicati al tema della trasformazione psicologica dopo la fase di riflessione e contemplazione (sogno o son desto? È tempo di acquistare un armonizzatore sinusoidale pure di seconda mano?).
Poi arrivarono gli Amorphous Androgynous: sempre loro due, però in versione retro-psichedelica anni ’60-’70, col banco mixer pieno di tablas, chitarroni, sitar al contrario, Morricone sotto mescalina in Technicolor sgranato ciano, magenta e giallo; Alice di Lewis Carroll in una marmellata di piante morte con infiorescenze soul-funk (il capolavoro è Alice in Ultraland, 2005). Il cosmo sciorinato meglio di Piero Angela, l’ecologia spiegata col flower-power a Cingolani e l’erotismo sprigionato dai fianchi di Barbara Bouchet in Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci. Un universo a parte. Brani come All is Harvest o The Prophet (influenzato da Bitches Brew di Miles Davis) concepiti come astronavi in grado di spedire l’ascoltatore verso pianeti fino ad allora noti solo a Kilgore Trout. La serie space-rock A Monstrous Psychedelic Bubble Exploding In Your Mind inaugurata nel 2008 e assemblata mixando Hawkwind, Mahavishnu Orchestra, John Williams, i Gong, Bo Diddley ed altri.
Qualche anno fa, il tentativo di collaborare con Noel Gallagher finì con non poche ammaccature: l’ex Oasis, lunatico alla sua maniera, si disse insoddisfatto delle registrazioni e pare che non si sia fatto scrupolo di cancellare i nastri delle sedute lasciando fuori solo un paio di cose uscite come B-sides. Ora Dougans e Cobain ci riprovano arruolando Peter Hammill, già voce dei Van der Graaf Generator (a breve uscirà il suo disco solista In Traslation, con cover di De André, Tenco, Piero Ciampi) per un progetto dal titolo filosofico: We Persuade Ourselves We Are Immortal. Dentro ci sono sei tracce per una durata complessiva di 40’:22” e stavolta si tratta di un trip un po’ meno solare (come l’artwork realizzato da Gavin Penn per la copertina), sorta di omaggio-reboot al registro drammatico dei Van der Graaf periodo Still Life (1976). Fiati, archi, il Chesterfield Philharmonic Choir, Paul Weller in vena di svagarsi col prog ingrassando con chitarra e pianoforte gli ingranaggi di un meccanismo che ingloba scorie art-rock, pinkfloydiane (il sax di Brian Hopper, il vecchio synth polifonico Yamaha CS80) e Dio sa che altro.
Fortunatamente non siamo in zona dei boriosi Mars Volta e il disco funziona anche in ragione della breve durata. Ipercinetico, costruito intorno alla voce di Hammill, è un lavoro che ha i suoi punti di forza nella title-track e nel brano Physically I’m here, mentally far, far Away. Da ascoltare in poltrona, durante un pomeriggio piovoso e con una tazza fumante di Oolong corretta con Butcher’s Gin.
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