1984, Atlanta, Georgia, USA: i fratelli Rich e Chris Robinson (rispettivamente chitarra e voce) fondano una band chiamata Mr Crowe’s Garden. Più tardi, all’apice del successo, avrebbero raccontato che da piccoli andavano a cantare il gospel in chiesa, ma agli albori il gruppo è acerbo, scopiazza a destra e a manca senza trovare una direzione precisa.
Riesce tuttavia ad attirare l’attenzione di un discografico dall’orecchio fino come George Drakoulias che, dopo aver assistito a un concerto, li porta alla corte dell’etichetta Def American fondata nel 1988 da Rick Rubin. Il nome cambia in The Black Crowes. Cambia anche il sound, quando Drakoulias fa ascoltare ai fratelli Robinson i tesori delle produzioni soul-r&b nere e bianche uscite nei decenni ’60 e ’70. Più i Rolling Stones della maturità (periodo Sticky Fingers ed Exile on main St.) e le perle del southern rock incise da Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers Band.
I ragazzi comprendono. I ragazzi hanno una folgorazione e cominciano a comporre roba loro: blues rovente; una spruzzata di country; un po’ di boogie con la sezione ritmica che infiamma le sei corde e l’ugola di un cantante pronto a lanciarsi nella mischia. Qualche ballad strappamutande e la grinta da amabili canaglie rock’n’roll vecchio stampo fanno il resto. La sintesi è uno stile che guarda al passato ma ha un impatto in qualche maniera personale che non passa inosservato presso pubblico e critica.
L’esordio sulla lunga distanza è Shake your money maker (titolo in omaggio a un brano inciso dal bluesman del Mississippi Elmore James nel 1961), album che esce il 13 febbraio del 1990 e che oggi viene ripubblicato in gran spolvero con un’appendice di materiale inedito che occupa quattro vinili o tre cd (è in circolazione anche una versione ridotta a due dischi). Il trentennale è scoccato nel 2020 e i Robinson (congiunti problematici come i Gallagher) avevano perfino seppellito le asce di guerra, pronti a imbarcarsi in un tour celebrativo che l’insorgere della pandemia ha congelato (al momento è in calendario una nuova partenza il prossimo 25 giugno da Tampa, Florida).
Un disco registrato tra Atlanta e Los Angeles all’insegna della sobrietà, almeno secondo quanto dichiarato da Chris in una recente intervista rilasciata a Rolling Stone: niente soldi per cibo, alcolici, droga. Drakoulias insegnò loro la disciplina e i trucchi dello studio di registrazione. Li preparò ad accogliere con riguardo gli ospiti (Chuck Leavell, un signore che aveva collaborato con George Harrison ed Eric Clapton suona qui pianoforte e organo; Brendan O’Brien, più tardi dietro al banco mixer per Red Hot Chili Peppers, Soundgarden, Neil Young e molti altri, si occupò dei missaggi). L’educazione dei giovani passa anche per il meglio del rock-blues di là dall’oceano: la grande stagione del Jeff Beck Group, John Mayall, The Faces.
Chris prende qualcosa dalla voce di Rod Stewart, il resto lo fa l’istinto. Già, perché a questo punto i Black Crowes hanno proprio voglia di dimostrare al mondo la loro bravura. Hanno fame e determinazione, l’esordio riflette tutto questo anche quando si misurano con le orme di un gigante come Otis Redding rileggendo a modo loro Hard to handle, brano che aiutò notevolmente l’album a farsi largo nelle classifiche. Tra i solchi di Shake you money maker ci sono la freschezza, la spontaneità di un gruppo capace di mettere in fila brani come Jealous again; Sister luck; She talks to angels.
Un lavoro che nell’edizione 2021 include b-sides e versioni demo (un paio sotto il vecchio monicker Mr Crowe’s Garden), quindi le registrazioni di un memorabile show al Center Stage di Atlanta del dicembre 1990 con tanto di zuffa tra il fumino Chris e un altrettanto riottoso spettatore. Il capolavoro sarebbe arrivato due anni più tardi, quel The Southern Harmony and Musical Companion trainato da Remedy, canzone oggi scolpita nel libro d’oro dei classici del rock. Inarrivabile e già segno di un declino dietro l’angolo, non tanto dal punto di vista compositivo (il successivo Amorica del 1994 contiene ancora ottime cose) quanto sul piano degli equilibri interni alla formazione. Ma questa è un’altra storia.