Zerocalcare torna con una nuova emozionante graphic novel. Un racconto personale che il fumettista romano sta presentando in questi giorni.
Ci ha abituato negli anni a storia con sfondo politico e del resto lui è uno di quelli che non ha paura di parlare di dissenso o di mostrare da che parte sta. L’ultima volta l’ha fotto proprio in questi giorni, quando al Salone del libro di Torino per presentare il suo ultimo lavoro, ha lasciato i padiglioni per scendere in strada in solidarietà con i protestanti pro-Palestina.
Questa volta però Zerocalcare, alias Michele Rech, ha smesso i panni dell’attivista per raccontare con la nuova graphic novel Quando muori spetta a me un pezzo della sua vita personale. Il racconto di un viaggio in macchina da Roma ad un paesino delle Dolomiti e in compagnia del padre. Non un infanzia traumatica, dice, niente che non succeda in tante famiglie, ma un rapporto complicato dalla mancanza di comunicazione.
Forse il racconto di cui ha più paura, tant’è che chi lo segue sui social sa benissimo che ha spoilerato in queste settimane tanto il tema quanto la reazione di sua mamma.
Quando muori resta a me è, come si diceva, un racconto personale: non è la prima volta volta certo, Zerocalcare ha basato molti dei sui lavori sui temi dello sviluppo personale, ma è indubbiamente la prima volta che entra così tanto nelle “beghe” familiari.
È qualcosa che lo espone maggiormente e che di conseguenza teme di più; se parla di temi politici o generazionali “Posso sempre schermarmi dietro il ‘lo faccio per una causa superiore’“, ha spiegato ai microfoni di Radio Deejay, ma quando “Parlo dei fatti miei, la gente mi dice ‘Cosa ci importa dei fatti tuoi?’“. Come a dire: “che gli rispondo?”.
Ma era forse anche il racconto di cui aveva bisogno: “Non è una storia traumatica da raccontare -dice ancora in presentazione- ma di scarsa comunicazione. È sempre stato così, mio padre non ha mai verbalizzato tante cose. Ma neanche io e neanche suo padre, è una caratteristica degli uomini della mia famiglia“. Un storia che racconta, quindi, quello che doveva essere detto ma che a parole non ha mai sentito o detto.
Un rapporto con il padre determinato dal divorzio dei genitori e per il quale ammette “Già di carattere non parlavamo di nostro, poi non avere più la quotidianità, non essere abituato a parlare allarga le distanze“.
L’Armadillo spauracchio della sua coscienza è diventato un marchio di fabbrica. C’è sempre lui dietro i i trip mentali del fumettista (con la voce di Mastandrea) e i suoi sensi di colpa hanno scritto pagine e pagine di vignette e serie tv.
Ma l’Armadillo non c’è sempre stato; non c’era a 5 anni quando è comparso il primo vero senso di colpa, quello che è ritornato a galla con la scrittura di questo racconto: “Mi ricordo che il mio grosso senso di colpa è stato quando io e mia madre siamo andati via dopo il divorzio, lasciando solo mio padre. Quella cosa l’ho vissuta molto male. Mi faceva tristezza. A cinque anni è sbagliato provare pena verso un genitore“.
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